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La storia delle ‘ricciaiole’ e dei ‘battitori’ casentinesi nei castagneti di Castagnoli in Chianti.

pubblicato in: Interviste

di Silvia Ammavuta.

Articolo gentilmente concesso da “Diari Toscani”

È autunno, tempo di raccolta delle castagne. Il fascino del foliage rende l’atmosfera intima e accogliente e il paesaggio mozzafiato. Sul marrone dei tronchi e dei rami degli alberi spiccano pennellate di colore che tingono e ombreggiano alcune foglie in rossi ambrati e ruggine, altre, lambite dal caldo dell’arancione, lasciano alle screziature del giallo il suo incalzare in estrose decorazioni. Quelle ormai secche, staccandosi dai rami, ondeggiando, planano a terra al lento ritmo della natura che s’incammina verso la stagione del freddo, del riposo, del caldo domestico, dei caminetti accesi, del profumo delle caldarroste che imbruniscono la loro buccia sulle braci.

Le stagioni si succedono nello scorrere del tempo, strato su strato depositano il loro incedere con  la stessa ciclicità con cui il manto di foglie copre la terra, un tappeto sul quale  ‘battitori’ e ‘ricciaiole’, generazione dopo generazione, rendevano brioso il suono del castagneto con i loro passi e le loro chiacchiere, dall’inflessione casentinese che, nel corso dei giorni, si faceva un po’ più confidenziale. ‘Che tu mùgoli o che tu ‘un mùgoli, pan di legno e vin di nuvoli’ (‘che tu ti lamenti o che tu non ti lamenti, c’è solo pane di legno, – farina di castagne – e vin di  nuvole,  – acqua ‘). Una frase che aveva accompagnato la loro infanzia e la loro gioventù. Erano ragazzi e ragazze e arrivavano nel Chianti per prestare la loro opera, il loro sapere di antica tradizione fatta di fatica e arte di arrangiarsi con quello che la natura dei monti del Casentino donava a chi, per sopravvivenza, sapeva ingegnarsi dei suoi frutti. Di quell’antico mestiere, ancora, qualcuno ricorda: sono passati decenni, mezzo secolo, ma il racconto ogni tanto si affaccia in chi ha respirato quel tempo di fidanzamenti nati fra i ricci di marrone e le serate di festa nelle fattorie. La prima tappa, calati dai monti casentinesi, era a Terranuova Bracciolini, per la fiera di fine settembre, accompagnati dai fattori dei poderi della loro terra. I vecchi ricordano che c’erano perfino due slarghi, due piazzette a loro dedicate, una per i ‘battitori’ e una per le ‘ricciaiole’, dove i fattori casentinesi contrattavano il prezzo del lavoro con i fattori di Castagnoli in Chianti, con l’accordo finale che, per ogni carro di marroni raccolto sul luogo, un carro di grano avrebbe preso la strada per il Casentino, terra in cui questo antico cereale non aveva vita facile per crescere e maturare. Pattuito il compenso, compreso vitto e alloggio, si avviavano sui carri per andare alle fattorie in cui a gruppi risiedevano per tutto il periodo della raccolta.

La mattina successiva, uomini e donne, s’incamminavano con pertiche e ceste per recarsi a lavorare nei castagneti, così numerosi da aver dato il nome di Castagno Aretino al luogo, un borgo chiamato poi Castagnoli, situato poco distante da Gaiole in Chianti. Addentrati nel bosco, veniva scavata una buca profonda nel terreno, pronta a raccogliere i ricci che i ‘battitori’ con le loro lunghe pertiche battevano fra i rami  mentre le ‘ricciaiole’, poco distanti, ne osservano l’oscillare e il cui ritmo era scandito dal cadere dei ricci al suolo e dal frusciare delle foglie che, sospinte, cedevano all’aria il loro cullare. L’albero appresso era la tappa successiva dei ‘battitori’, mentre le ‘ricciaiole’ raccoglievano i ricci per gettarli dentro la buca. Le giornate trascorrevano così, con il sottofondo del suono dei rami battuti e dal ruzzolare dei ricci sulle foglie secche, dal richiamare da un albero all’altro i compagni, dal sospiro profondo delle donne, mentre sollevavano e trasportavano le ceste ricolme. Pane e formaggio e un bicchiere di vino allungato con l’acqua era la desina per poi riprendere il lavoro fintanto il buio si incuneava fra i castagni quasi spogli.

Era l’ora del rientro alla fattoria, la cena consumata insieme occasione di svago e di meritato riposo, e anche un po’ di divertimento non guastava, allietava gli spiriti.

Non mancava mai la musica: era semplice, un organetto, una piccola fisarmonica diatonica a bottoni che affidava la sua bisonorità alla maestria del suonatore nel saper chiudere o aprire il suo mantice, alcune voci intonavano canti popolari e ogni sera, a turno, nelle case dei contadini, era una festa. La gioventù di questo si nutriva, rigenerando anima e corpo. Ballare e amoreggiare era la lieta conclusione di una giornata. Due settimane erano necessarie per ‘purgare’ i marroni, restavano lì nella buca in attesa di essere pronti per essere ‘sdricciati’, dopodiché il raccolto veniva diviso in parti uguali – anche per dimensioni: piccoli, medi e grandi, metà ai contadini e metà alla fattoria che li aveva reclutati. Giungeva così il momento di fare rientro in montagna, ma per alcuni amori, sebbene fossero sbocciati nella stagione in cui la natura si avvia al riposo, era l’inizio di una ‘primavera’ spesso coronata dai fiori di arancio. Sono storie di altri tempi, ma ancora, in autunno, il castagneto sussurra, il manto di foglie e ricci è un tappeto intessuto di storie sul quale, nei passi dei battitori e delle ricciaiole, risuona ancora il canto del loro lavoro, delle loro tradizioni e della loro sopravvivenza, erano i tempi in cui per ogni carro pieno di marroni, un carro pieno di grano prendeva la via dei monti casentinesi.

Con il contributo di Giorgio Pagni, memoria storica del Chianti.

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