di Silvia Ammavuta.
È un salto a ritroso nel tempo l’incontro con la tessitrice Stefanie Duex. Per arrivare al suo laboratorio c’è una strada sterrata che si addentra nel bosco, appena lasciata la provinciale 484 che conduce alla località Madonna a Brolio, nel Chianti. Poco più di 200 metri, una distanza esigua dalla strada asfaltata, ma, appena giunti a Dudda, l’atmosfera che si respira evoca un’epoca lontana e il contatto con la natura circostante dona senso di tranquillità; il verde dei prati allieta la vista, i fiori inebriano l’olfatto, e il sorriso di Stefanie che mi accoglie sono il benvenuto che mi riempie di serenità. Mi invita a entrare nel luogo in cui il suo sogno di ragazza si realizza ogni giorno da oltre 40 anni. Stefanie mi lascia il tempo di osservare le sue creazioni appese, impilate, piegate ovunque: poncho, stole, canovacci, sciarpe, io lascio a lei il tempo di osservarmi, mentre osservo. Perfino le lancette di un orologio sembrano rispettare questa sospensione, in cui possiamo assaporare il piacere reciproco del silenzio. Una volta sedute, il suo racconto è esattamente come il filo che usa per tessere: le sue parole scorrono sull’ordito della vita passata a coltivare una passione che le è stata trasmessa dalla madre, anch’essa tessitrice, se pure per diletto. Stefanie di questa passione, appresa nel corso degli anni sui libri e facendo ricerche, ne ha fatto un lavoro.
“Ho provato e riprovato, ho imparato per errori, è stato un cammino molto lungo perché tessere non è facile, e oltretutto non c’era internet come oggi, non c’erano tutorial!”. La sua giornata non è riservata solo al telaio, ma anche alle piante che circondano il suo laboratorio e la sua abitazione e all’accudire le sue pecore di razza mista – che stanno nella stalla o, quando il tempo è buono, all’aperto, sempre con la sua presenza, perché ci sono i lupi. Le pecore le forniscono buona parte della lana per le sue creazioni, ma Stefanie usa anche cotone, lino e canapa: “Ho imparato a lavorarla qui, perché nel mio paese, in Germania, la canapa non c’era, o almeno non ne ho ricordo – dice – In Germania la tessitura era prettamente un lavoro maschile, invece nel Chianti, in passato, ogni podere aveva delle pecore e quasi tutti avevano il telaio: c’era proprio una stanza dedicata. Quando il lavoro nei campi diminuiva, le donne tessevano in casa, mentre in Germania non c’era la tradizione di possedere un telaio, anche se anche lì avevano le pecore: venivano tosate e preparavano le matasse di lana, quando ne avevano una quantità sufficiente venivano chiamati i tessitori, che erano uomini e che avevano un telaio trasportabile. Quando arrivavano nei poderi, lo montavano e tessevano oltre alla lana forse anche il lino, ma la canapa quasi sicuramente no”.
Dopo avermi raccontato il procedimento della lavorazione della lana, partendo dalla tosatura che esegue lei stessa, a cui segue la cernita, la prima pulizia, e quindi il lavaggio, l’asciugatura e una nuova pulizia, mi mostra lo scarda scasso per aprire la lana: “Dopo, con la cardatrice allineo i fili per poi passare alla filatura, che faccio quando porto le pecore al pascolo, come facevano una volta le nostre nonne, e che mi rilassa molto. Primo filo e poi raddoppiato o triplicato, dipende dal tipo di tessuto che voglio fare: la sensazione che provo al tatto è bellissima. Oltretutto ogni pecora ha una lana diversa: morbida, ruvida e una via di mezzo tra le due, anche se sono della stessa razza. A quel punto la coloro, con colori naturali e poi sono pronta per tessere”.
Ormai immersa in questo mondo fuori dal tempo non mi stupisco quando mi dice che i colori sono opera sua: “La natura regala tanto colore: fiori selvatici, radici, foglie, quello che predomina è il giallo in tutte le tonalità; inoltre semino più varietà di fiori per avere maggior scelta cromatica.” Le chiedo di mostrarmi i telai, che sono a pochi metri da noi. Si siede davanti a uno di essi, c’è un lavoro avviato, e riprende da dove aveva interrotto. In quel preciso istante mi lascio catturare dal movimento delle sue mani, dall’intreccio dei fili che scorrono dando vita a un disegno geometrico. È una danza, un inno alla creatività che sgorga dal movimento fluido del corpo di Stefanie, un tutt’uno con il telaio, quasi non esistessero confini tra lei e la struttura in legno.
La plasticità delle mani segna, in un ritmo cadenzato, lo scorrere del tempo, che resta uguale a se stesso per ogni movimento da destra a sinistra, est e ovest, nascita, morte e rinascita, e nascita ancora. Un filo che unisce il passato, il presente e il futuro e che porta dentro una dimensione meditativa, intrigante e misteriosa. Torno alla realtà quando Stefanie interrompe e mi dico che quando lei non lavorerà più al telaio, non ci sarà chi lo farà, per cui le chiedo se ha qualcuno a cui tramandare quest’arte: “Non ho allievi, qualcuno me lo ha chiesto, ma la mia giornata è piena, anzi, strapiena, e non ho il tempo per dare lezioni. Oltretutto una volta i telai erano sempre pieni di lavoro e di conseguenza non potevo tenere occupato un telaio per insegnare. Ho sempre detto che chi lavora non ha molte possibilità di avere allievi, a meno che non si abbia molto spazio e molti telai a disposizione, diversamente non è possibile”.
Il suo sottolineare che ‘una volta i telai erano sempre pieni di lavoro’ mi porta a chiederle cosa è cambiato nel corso di questi ultimi anni, la risposta è secca e puntuale: “Se dovessi ascoltare la mia testa dovrei chiudere, ma il cuore mi dice di no.” Dopo un momento di pausa riprende: “La gente non comprende perché dovrebbe acquistare articoli che hanno un prezzo decisamente più alto rispetto a quelli delle grandi distribuzioni, ormai la mentalità è di comprare, usare e gettare. Del resto se ci pensa è così anche per l’abbigliamento: al cambio di stagione si deve rinnovare il guardaroba. Nella mia famiglia non era così, sono cresciuta con un’altra mentalità, meno capi di abbigliamento, ma buoni, che durassero. Io li chiamo sfizi materiali. Le chiedo se non ha la sensazione di vivere fuori dal tempo: “Di sicuro! E mi sento bene. Quando esco, torno a casa stremata; qui ho il mio mondo e uscire sta diventando traumatico. Ho pochissimi amici, ma buoni, esattamente come i vestiti. Come vivo io lo può capire solo chi vive come me o similmente a me, gli altri hanno difficoltà a comprendere”.
Articolo pubblicato su Diari Toscani.